Le origini storiche della Gihad

1.

Nell'Introduzione al saggio sulla Bibbia (Facci un dio…) ho scritto che le credenze religiose hanno matrici storiche che non è sempre facile ricostruire, data la lontananza nel tempo degli eventi che le hanno prodotte e la carenza di documenti storici. Solo in alcuni casi, la ricostruzione storica può arrivare a risultati certi che confermano l'assunto. Uno di questi riguarda la gihad, la guerra santa che, in nome di Allah, impone alla comunità dei Fratelli musulmani di coalizzarsi contro il Nemico. Si tratta di uno dei pilastri dell'Islam, che è venuto prepotentemente alla ribalta, dopo secoli di latenza, in seguito alla guerra dichiarata dall'integralismo islamico contro l'Occidente. Data l'eterogeneità delle sette islamiche, la gihad ha riconosciuto e riconosce interpretazioni diverse. Senza entrare in troppi particolari, si può affermare che ad un estremo, che dà sul misticismo, la gihad ha il significato di una lotta perpetua contro il nemico interno - Satana - che minaccia costantemente l'integrità dell'anima e la sua sottomissione ad Allah, mentre all'estremo opposto, religioso e politico nello stesso tempo, essa promuove la guerra in senso proprio, con tutti i mezzi possibili (compreso il terrorismo), contro qualunque nemico minacci la comunità musulmana o cerchi di introdurre in essa valori culturali incompatibili con il Corano e con la Sunna (che, in quanto tradizione interpretativa del Corano, è l'equivalente del magistero della Chiesa Cattolica). E' quest'ultima interpretazione della gihad che qui interessa.

Le sue origini storiche possono essere ricostruite in virtù del fatto che le vicende della vita di Maometto sono documentate ampiamente (molto più che non quelle di Gesù) e trovano molteplici riscontri nel Corano.

Per quanto romanzata e idealizzata, la vita del Profeta comporta alcune tappe essenziali. La vocazione di Maometto non è precoce. Essa sopravviene, in seguito ad un lungo periodo di riflessioni su problemi esistenziali e metafisici, che non trovavano risposta nel politeismo all'epoca dominante in Arabia, intorno ai quarant'anni, allorché Maometto ha una prima rivelazione di Allah attraverso l'angelo Gabriele. Come Mosè, egli è incredulo, ritiene di essere divenuto pazzo o di essere posseduto dai ginn (gli spiriti maligni). Solo lentamente, confortato dai suoi, si arrende al ruolo di messaggero di Allah come unico Dio Onnipotente e Misericordioso. L'investitura lo trasforma in un predicatore disarmato, che può avvalersi solo della parola e della Verità che Allah gli comunica.

Tra queste Verità, ce n'è almeno una che lo pone in rotta di collisione con il potere costituito politico e religioso dominante a la Mecca. Oltre, infatti, ad affermare la sua unicità e ad anticipare la fine del mondo e il Giudizio universale, Allah stigmatizza con estrema durezza l'accumulo delle ricchezze, la pratica degli interessi usurai, il lusso, l'egoismo privato e lo stato di abbandono in cui versano, a causa dei ricchi, i poveri. Più del monoteismo, che definisce idoli gli dei esistenti, è questa tematica sociale e politica ad attivare, da parte dei ceti abbienti, una persecuzione alla quale Maometto scampa fortunosamente ritirandosi a Medina.

L'Egira, che risale al 621 d.C. e rappresenta l'anno da cui i musulmani avrebbero preso a contare i loro anni lunari, salva la vita a Maometto, ma lo pone in una condizione di disagio. Accolto da tribù amiche convertite ad Allah con il seguito della famiglia e dei discepoli (all'epoca alcune decine), egli e i suoi sono nondimeno degli Emigrati. Nonostante Maometto enunci la nuova legge, destinata ad influenzare profondamente la storia dell'Islam, secondo la quale i legami di fede tra Fratelli sono più importanti dei legami di sangue, egli sa di non potere approfittare all'infinito della beneficenza delle tribù per sé e per i suoi. E' necessario insomma procacciarsi da vivere. Ma come? L'unico mestiere noto a Maometto e ai discepoli è il commercio carovaniero. La fuga dalla Mecca ha costretto però a lasciare colà tutti i beni e i capitali. Come restaurarli? L'unica possibilità è la razzia delle carovane che attraversano l'Arabia in direzione della Mecca, e che rappresentano la fonte primaria di guadagno e di ricchezza dei nemici meccani.

Si pone però a questo punto un grave problema di ordine etico. Può un Profeta disarmato, che sino allora ha imitato Mosé, imbracciare le armi e fare la guerra in nome di Allah? Non dandosi alternative, la risposta, attribuita ad Allah, non può essere che positiva. Si ritrova traccia di questo viraggio ideologico, dal pacifismo alla guerra santa, nella prima Sura del Corano, redatta forse già prima della partenza dalla Mecca:

"190 Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, ché Allah non ama coloro che eccedono.

191 Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell'omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti.

192 Se però cessano, allora Allah è perdonatore, misericordioso.

193 Combatteteli finché non ci sia più persecuzione e il culto sia [reso solo] ad Allah. Se desistono, non ci sia ostilità, a parte contro coloro che prevaricano."

In nome di questi principi, che corroborano già il concetto di guerra santa, Maometto e i suoi si danno alle razzie, sia pure cercando di evitare, nei limiti del possibile, lo spargimento di sangue.

Interviene però nel secondo anno dell'Egira un incidente che rischia di compromettere la credibilità musulmana. Equivocando un ordine del Profeta, un commando assale una carovana yemenita e uccide un carovaniere. L'episodio accade, però, in un periodo dell'anno (ragab) nel corso del quale veniva da sempre osservata una tregua d'armi. Lo scandalo spinge Maometto a rifiutare la parte del bottino che gli spetta. Ma una nuova rivelazione, affidata alla Sura 2 risolve il problema. Essa recita:

"V'è prescritta la guerra anche se ciò possa spiacervi: chè può darsi vi spiaccia qualcosa che è un bene per voi, e può darsi vi piaccia qualcosa, mentre è un male per voi, ma Allah sa e voi non sapete./ti chiederanno se è lecito fare la guerra nel mese sacro. Rispondi: "far guerra in quel mese è peccato grave. Ma più grave è agli occhi di Dio, bestemmiare lui e il sacro tempio e scacciarne la sua gente, poiché lo scandalo è peggiore dell'uccidere, e costoro non cesseranno di combattervi fino a quando loro riuscisse di farvi spostare dalla fede."

Maometto dunque può incassare il bottino e, data la malvagità dei nemici, sentirsi autorizzato e autorizzare i suoi a ritenere sacro ogni atto di guerra contro di loro.

2.

Riesce evidente, da questa ricostruzione, che il concetto originario di guerra santa dipende dalla valutazione del nemico. I meccani erano, di fatto, fieramente ostili a Maometto e, se fosse stato possibile, lo avrebbero volentieri eliminato. Nella misura in cui essi erano politeisti, quindi negatori dell'unicità di Allah e delle sue leggi, e oppressori del popolo, il principio per cui il fine giustifica i mezzi poteva essere facilmente adottato.

Ancora oggi questo principio, convalidato come si è visto dal Corano, può essere fatto proprio dall'Islam nella misura in cui sia possibile dimostrare che il Nemico crede in falsi dei e attenta alla purezza della fede e della comunità islamica. Coloro che in Occidente si meravigliano del fatto che, in nome di Dio si possa uccidere, oltre ad avere la memoria corta in riferimento alla storia del cristianesimo, evidentemente sanno poco dell'Islam. Ciò vale anche per i musulmani moderati che, per accreditarsi agli occhi degli Occidentali o semplicemente per imbarazzo, ripetono lo stesso slogan.

Detto questo, c'è da chiedersi in quale misura Maometto, virando dal ruolo originario di profeta disarmato a quello di profeta armato, che lo porterà alla vittoria definitiva sui nemici meccani e alla fondazione della civiltà islamica, sia stato in buona fede. Il sospetto che egli abbia fatto di necessità virtù, piegando il volere di Allah ai bisogni immediati suoi e dei suoi discepoli, s'impone. Accreditarlo, però, significherebbe adottare un metro razionalistico sterile. Maometto era di sicuro in buona fede, non meno dei Papi che autorizzarono la cristianizzazione degli Amerindi e il Tribunale dell'Inquisizione. Il Corano attesta inequivocabilmente una fede cieca e appassionata che, nel corso del tempo, si radicalizza e assume accenti sempre più mistici. Maometto non ha mai avuto, come è capitato a tanti personaggi bilbici, una visione diretta di Dio.Allah è invisibile all'uomo, e tale deve rimanere in nome della sua Onnipotenza che sarebbe insostenibile allo sguardo umano. Egli era però un teopatico: sentiva Allah e ne riceveva le rivelazioni di cui era messaggero. La purezza della sua fede è, dunque fuori di dubbio, e estingue ogni sospetto su di un uso strumentale della stessa. Certo, la teopatia, impossibile da capire per i razionalisti, si può interpretare psicoanaliticamente. Ma questo è un altro discorso.

Aprile 2003